Quello in cui racconto una scomoda verità
- Valentina Quaranta
- 4 feb 2024
- Tempo di lettura: 3 min
Caro diario
Dire la verità è difficile, ma accettare le cose come stanno dopo aver nascosto la polvere sotto il tappeto è anche peggio.
Io l’ho fatto. Più di una volta.
Una volta ci giri intorno, un’altra metti le mani avanti, a volte fingi di ammettere una colpa più grave per non far pesare ciò che stai per dire, la verità è che la mia non era una colpa, ma solo una situazione scomoda e vergognosa per una ragazzina insicura di 14 anni.
Se non mi capisce? Se mi giudica? E se non vuole più avere niente a che fare con me? Sono solo alcune delle domande che fluttuavano nella mia mente quando scrivevo i messaggi, perché col cavolo che trovavo il coraggio di dirlo faccia a faccia e no; non dovevo lasciare nessuno, ma sarebbe stato sicuramente più facile per me.
Ricordo la prima volta che ho avuto il coraggio di dire al mio migliore amico cosa stava realmente succedendo nella mia vita, perché lui stava andando avanti, mentre io ero rimasta ferma. Era passato ormai un anno dall’accaduto ma tremavo e piangevo come se fosse una ferita ancora fresca, perché in fondo lo era.
Sapevo di non essere obbligata a dirgli tutto, non lo avrebbe mai scoperto altrimenti, se non contiamo il momento in cui lui sarebbe andato all’università e io ancora lì a mangiarmi le mani per la maturità.
Era lo stesso per tutti gli altri miei amici, non dovevano saperlo per forza, ma preferivo comunque che lo sapessero da me piuttosto che da altre bocche indiscrete come poi è successo con Giulia (nome generico per tutelare la sua privacy e anche un po’ la mia).
In quel periodo frequentava un ragazzo poco raccomandabile, più grande di lei che per coincidenza era in classe con me prima di essere stata bocciata. Non so per quale motivo, ma aveva un sentimento intenso contro di me e ha voluto versarlo tutto su di lei dopo aver scoperto che eravamo amiche.
Chissà di cosa aveva paura: le brutte facce alla fine si rivelano sempre anche senza essere smascherate.
Giulia era una mia grande amica, sapevo che avrebbe capito perché non glielo avessi detto prima, fu molto comprensiva mi ricordo; ma il punto rimane: lui non aveva nessun diritto di dirglielo. Era, è una cosa mia e decido io come e quando sono pronta a condividerla.
La vergogna che ho provato quando mi ripeteva “Ma non ti fidi di me?” “Non sarebbe cambiato niente” e piano piano quella vergogna si faceva imbarazzo: mi sentivo stupida, ma d’altra parte non ho avuto grandi esempi di comprensione nell’ambito scolastico.
Gli insegnanti, quelli che lavorano con studenti in difficoltà, erano i primi a puntarmi il dito contro: spero che quest’anno hai intenzione di usare un’altro metodo di studio visto l’anno passato. Quando pensavo di aver avuto un piccolo successo era anche peggio: non hai studiato, è solo rendita, non posso metterti un voto alto come a un tuo compagno, non sarebbe giusto.
Cresciuta con l’angoscia: se vado male è perché sono troppo stupida, così dicevano loro, ma se vado bene non è merito mio.
Con i compagni non era tanto meglio. Fin dal primo giorno mi aggredivano con interrogativi a cui non avrei voluto rispondere per lo stesso principio di prima: sono cose mie, traumi miei e decido io quando e se parlarne.
I miei a quel punto ex compagni, naturalmente tutti maschi perché la cattiveria è femmina ma il cattivo gusto è maschio, a ogni intervallo erano davanti alla mia classe pronti a ridere di me: davvero di cattivo gusto.
Non piansi mai a scuola per questo, non era nel mio personaggio: la cazzuta menefreghista, ma ci rimanevo davvero male e non avevo nessuno con cui parlare che potesse veramente capire cosa stessi passando.
Ero sola.
E per non esserlo più potevo solo iniziare ad accettare questo grande fallimento e trovare un punto di partenza, qualcuno che per primo mi avrebbe capita e dato la forza di raccontare di nuovo quella storia, a uno poi un altro e un altro ancora.
Voglio ringraziare il mio punto di partenza e tutti gli altri che lo hanno seguito nel darmi la forza di raccontare ancora questa scomoda verità.
V(vb)
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