Quello che non ti ho potuto dire
- Valentina Quaranta
- 21 set
- Tempo di lettura: 4 min
Quando ti ho conosciuto mi hai insegnato che la morte non è altro che il ripristino dell’equilibrio che rompiamo nascendo. Però non riesco a spiegarmi come l’equilibrio che hai riportato nella tua non-esistenza abbia devastato quello nella mia vita.
Mi chiedo se esista davvero una sorta di iperuranio dove finiscono tutte le anime spente, e se tu, da qualche parte, ancora vegli su di me e ridi perché non so gestire questo momento, perché mi hai preparata a tante prove ma non a questa. Forse è una fantasia inventata a tavolino dai filosofi per chi ha bisogno di credere in qualcosa. Come me adesso.
Da quando sono tornata, Milano non è più la stessa. O forse sono io a non avere più gli strumenti per capirla. Percepisco la stessa impotenza di quando ero piccola: mia mamma mi leggeva una storia prima di dormire e io dovevo aspettare l’indomani per scoprire cosa mi avrebbe riservato il capitolo successivo, perché ero troppo piccola per farlo da sola.
Quando ti ho conosciuto hai iniziato a leggermi una storia: un manuale per sopravvivere in questo pazzo mondo e qualche consiglio su come affrontarlo. Vorrei tanto che mi avessi lasciato delle istruzioni con tutte le risposte alle domande che non ti ho potuto fare. Vorrei qualcosa a cui aggrapparmi che mi spieghi il senso di tutto questo, perché per quanto mi sforzi non riesco a trovarlo.
Vorrei essere arrabbiata. Vorrei prendermela con chi mi ha tenuta all’oscuro, togliendomi lo spazio e il tempo per elaborare il lutto, proprio come hai fatto tu.
Vorrei poter tornare a quella mattina dopo Ferragosto, spegnere il telefono e andare al mare convinta che saresti stato qui ancora per molto. Potrei ancora immaginarti nel tuo ufficio, in qualche angolo del mondo che non hai visto, ma so che non è possibile.
Come si fa adesso? Dovrei vivere come se tu fossi stato solo un bel ricordo? Non posso. Non voglio. Tutti i progetti e i sogni che inseguo li avevo tracciati con te: mi indicavi una via e adesso come faccio? La mia passione era la tua, e ora mi legherà per sempre a te.
Non c’è un modo giusto per dare una notizia così dolorosa e sicuramente nessuno voleva la responsabilità di dirla proprio a me. Sembra melenso, forse lo è, ma l’unico che avrebbe trovato le parole giuste per darmi questo dolore nel modo più dolce saresti stato tu. Dovevi essere tu. Ma capisco perché non l’hai detto, io avrei fatto lo stesso.
Non serve che ti dica come l’ho presa: lo sai già. Non intendo sostenere l’assurdità che tu mi veda davvero dal cielo, anche se mi piacerebbe tanto che fosse così.
Ho sempre pensato che tu avessi già affrontato i miei stessi demoni; solo così posso spiegarmi la tua capacità di prevedere ogni mia necessità. Tu eri un prestigiatore con le parole; la mia fragilità era la bambina ammaliata davanti a una scatola vuota che sembrava essere piena. Ci sei riuscito ancora, ma stavolta la scatola era dentro di me.
Un attimo prima c’era serenità, noia e gratitudine; quello dopo soltanto il nulla.
È come se qualcosa dentro di me fosse precipitato mentre il corpo restava rigido su una passerella bianca e azzurra, ostacolando il via vai per la spiaggia. Mi guardavo le mani: tremavano come un tempo, incapaci di trattenere la caduta libera dei pezzi della mia scatola.
A quel punto dovevo dare delle risposte: a chi mi aveva scritto, a chi mi aveva chiamata, a chi mi aveva vista piangere rannicchiata su un lettino da mare, preoccupandosi più per me che per te. Come se dovessi essere io la persona da salvare.
Ho sentito il peso della tua assenza in ogni parte del mio corpo, prima nelle mani, perché ora toccava a loro trovare le parole giuste per spiegare ciò che nemmeno io riuscivo a comprendere fino in fondo.
Com’è possibile? Davvero non lo so.
Da allora non smetto di pensare a quanto tu abbia sofferto, a quanto ti sia sentito solo nel pensiero della morte e all’impotenza che devi aver provato vedendo le persone che amavi non rassegnarsi a vivere senza di te.
Per me è più facile accettare il tuo dolore che il mio: forse perché aveva una data di scadenza, mentre io dovrò convivere a lungo con questa angoscia; o forse perché, semplicemente, non è il mio.
Soffrire per empatia è forse più nobile che soffrire per la paura infantile di vedere andare via ciò che amiamo. È assurdo pensare che ora vorrei tornare in quell’aula a respirare insieme a te, in preda al panico, perché in quel momento avrei voluto essere ovunque, ma non lì, così vulnerabile davanti a te.
Per questo mi sono rifugiata in una bolla di ricordi, pensando a com’eri, a tutto ciò che mi hai insegnato e ai valori che mi hai trasmesso.
Immagino cosa sarebbe successo se avessi fatto subito come mi avevi detto: se non mi fossi preoccupata degli imprevisti o degli impegni per godermi un momento che non riavrò più. Se avessi capito prima che c’è qualcosa di più importante di una scadenza, di una laurea o di una giornata storta, forse avrei potuto salutarti un’ultima volta.
Eri la persona più brillante che io abbia mai conosciuto; eppure credo che nemmeno tu avessi tutte le risposte. Era la tua capacità di porre le domande giuste a renderti davvero geniale.
Spero che tu sia orgoglioso di me, anche solo la metà di quanto lo sono io per tutto ciò che ho imparato da te.
Se potessi, oggi ti direi solo: grazie.
Grazie perché, a modo tuo, mi hai salvata dal baratro.
Grazie perché mi hai dato una nuova prospettiva di vita.
Grazie per esserti fatto carico dei miei traumi.
Grazie per aver contato insieme a me.
Non lo dimenticherò.
V

💔